Da “ANS”
7 Agosto 2020
Nel generale, commosso ricordo che tutta Italia sta dedicando a Sergio Zavoli – una delle firme più autorevoli del giornalismo italiano, volto della TV e famosa voce della radio, senatore della Repubblica e pensatore illustre – forse stanno passando un po’ sotto silenzio i suoi trascorsi scolastici salesiani. Eppure, lui stesso amava raccontare e scrivere dei suoi trascorsi nell’ambiente salesiano. Numerosi sono gli spunti che regalò nel libro “Il ragazzo che io fui”.
“La domenica si andava al ritiro “delle cinque” nella chiesa dei Salesiani. Non era solo una abitudine, né sempre un empito spirituale, a portarci dentro il fiato caldo un po’ stordente di quella stipatissima funzione pomeridiana. Forse, più di tutto, ci attirava la “marchina” che dava diritto ad assistere, di lì a poco, gratuitamente, al film proiettato nella sala parrocchiale. Un piccolo ricatto fin d’allora perdonato a don Rossi, ricattato da noi mille volte. Che prete!
Alto come una pertica, abile nel far prendere alla veste il giro giusto quando si voltava, e fasciato in vita così da lasciare immaginare un corpo di atleta, mi chiedevo quale disastro lo avesse castigato dentro quel nerume!”.
Quanto a noi, i ragazzi dell’Oratorio, eravamo già in vena di domande, sebbene capissimo che le risposte sarebbero arrivate con qualche prudenza, e solo ogni tanto un fuggevole azzardo per non scoraggiare le nostre attese più temerari. Perché Dio sceglie di nascere sulla Terra, attraverso Gesù, dopo millenni dal cosiddetto big-bang? E proprio in quell’anno, in quella notte, e in un luogo per giunta con poca acqua, pressoché privo d’ombra, il telefono e la radio? Secondo una scuola luterana, ci spiegava il salesiano don Rossi la ragione per cui il Verbo, la parola, si fece carne (Giovanni 1, 14) e “venne ad abitare in mezzo” a noi duemila anni fa, apparteneva al tempo in cui il Logos, il pensiero, si distendeva lungo le coste del Mare nostrum grazie all’avvento della Scrittura.,
«[..] Rammento che da fanciullo, nella chiesa dei Salesiani a Rimini, domandai a don Rossi se avesse mai pensato alla nascita di Gesù come a una sorta di favola sacra, con cui lasciar dolcemente dondolare l’idea di Dio nella mente di noi bambini. Si sedette.su una panca tenendomi in piedi davanti a sé, per avere i suoi occhi nei miei, e la risposta venne quasi la dovesse a sé stesso, raccontando con quali parole, in seminario, se l’era cavata di fronte a un’impertinenza pari alla mia! Ma poi, procedendo nei suoi dubbi, e rimettendo il prodigio nei poteri di Dio, tutto via via diventava mirabilmente credibile! Gesù, stesso, d’altronde, aveva raccontato che il Padre celeste si era rivolto a una creatura giovane e serena, capace di stupore e mitezza, e ogni cosa era accaduta secondo la volontà di Dio[ ] Il mio babbo, che con i preti andava così così, mi disse che aveva ragione don Rossi e io fui contento. Il mio babbo diceva che i Salesiani vanno rispettati. Don Bosco infatti non era mica un vagabondo».
“ [ ] Don Rossi giocava a pallone con noi nel campo dei Salesiani. Le squadre si chiamavano “Ausa”, che era un canale puzzolente, “Topi grigi” e “Zona infetta”. Si capisce dai nomi che eravamo in un posto mica tanto pulito ma non ci è mai venuta nessuna malattia, neanche nella melma del canale e mio padre diceva che tutto quello che non affoga ingrassa. Lo diceva per modo di dire. Io ero dell'”Ausa” e giocavo in porta. Mia mamma mi aveva fatto le mutandine nere con l’imbottitura di fianco, così se mi buttavo sentivo meno male».
A detta dell’autore, Sergio Zavoli, “Il ragazzo che io fui” è in fondo il tentativo di capire ciò che la memoria, dalla più lontana alla più incombente, può lasciare a un bambino che pare avviato, come fu per me alla sua età, a diventare scriventista, una parola salvata a lungo; in silenzio, dall’immaginazione innocente di mia madre».
Così narra Zavoli, con l’abituale frase: «Come sempre, lasciamo parlare i fatti».